LA RIFORMA (DELLA RIFORMA) DEL DIRITTO DELLA CRISI D’IMPRESA

Il decreto legge 24 agosto 2021, n. 118 riforma la riforma del diritto della crisi d’impresa. È una riforma al quadrato (o al cubo, se si considera il “correttivo” al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, c.d. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) che nasce dalla “straordinaria necessità e urgenza” di “introdurre misure di supporto alle imprese per consentire loro di contenere e superare gli effetti negativi” prodotti dall’emergenza da SARS-CoV-2. Il fine nobile di sostenere l’impresa nell’attuale congiuntura viene realizzato su due principali binari: il primo basato sull’introduzione di un nuovo strumento di composizione assistita della crisi, in vigore dal 15 novembre prossimo; il secondo sul differimento dell’entrata in vigore, a doppia velocità, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (al 16 maggio 2022 l’intero Codice e al 31 dicembre 2023 la sola procedura di allerta). Con la prima linea di riforma, si intende condurre per mano l’impresa, affidandone le sorti a un professionista indipendente monocratico, specializzato nelle ristrutturazioni aziendali.

Data: 11 Ottobre 2021
IN MATERIA DI DISCRIMINAZIONE DI GENERE NEL RAPPORTO DI LAVORO L'ART. 40 D.IG. 198/2006 NON STABILISCE UN'INVERSIONE DELL'ONERE PROBATORIO, MA SOLO UN'ATTENUAZIONE DEL REGIME ORDINARIO, PREVEDENDO A CARICO DEL SOGGETTO CONVENUTO, L'ONERE DI FORNIRE LA PROVA DELL'INESISTENZA DELLA DISCRIMINAZIONE, SOLO UNA VOLTA CHE IL RICORRENTE ABBIA FORNITO AL GIUDICE ELEMENTI DI FATTO IDONEI A FONDARE LA PRESUNZIONE DELL'ESISTENZA DI ATTI, PATTI O COMPORTAMENTI DISCRIMINATORI IN RAGIONE DEL SESSO

Nella sentenza in esame la Sezione lavoro della Suprema Corte ha posto nuovamente l’attenzione sull’onere probatorio in tema di discriminazione di genere sul posto di lavoro. Il caso in esame riguardava una lavoratrice che assumeva l’ingiustizia del capo della sentenza della Corte territoriale che aveva negato l’esistenza di una disparità diretta di genere “non giustificata da finalità legittime conseguite con mezzi appropriati e necessari”. I motivi di impugnazione della lavoratrice si articolavano - oltre che sulla nullità della sentenza e l’insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti - sotto la denunzia della violazione e della falsa applicazione del complesso normativo vigente in materia, ovvero gli artt. 15 della legge 903/1977, 4 della l. 125/1991, 40 del d.lgs. 198/2006 e art. 28 del d.lgs. 150/2011), ma la Corte ha respinto tutte le deduzioni. La Cassazione, anzitutto, ha analizzato la denunciata violazione e falsa applicazione di legge solo in riferimento all’art. 40 del d.lgs. 198/2006 (che ricalca l’art. 4 della legge 125/1991) e con ciò, implicitamente, ha escluso la rilevanza alle altre fonti normative richiamate dalla lavoratrice, ovvero l’art. 15 della legge 903/1977 e l’art. 28 del d.lgs. 150/2011. Le ragioni sono comprensibili quanto all’art. 15 legge 903/1977.

Data: 1 Ottobre 2021
DECADE DALLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE LA MADRE CHE NON SI CURA E NON SUPPORTA IL FIGLIO NELL’ADEMPIMENTO DEI PROPRI OBBLIGHI SCOLASTICI

Nella sentenza in esame la Suprema Corte si è occupata del giudizio di legittimità di una sentenza della Corte di appello di Bari che aveva respinto il reclamo introitato dall’odierna ricorrente e confermato il provvedimento decadenziale emesso dal Tribunale per i minorenni di Bari. Il Giudicante di prime cure, invero, aveva ancorato la propria decisione a circostanze gravi e specifiche. Per altro verso, il Tribunale dei Minori aveva avviato un apposito procedimento stante la circostanza per la quale, in seguito al trasferimento presso la nonna materna, il minore aveva iniziato a frequentare poco la scuola e a tenere condotte inadeguate. Il Tribunale aveva rappresentato nello specifico la totale inadeguatezza educativa della madre – la quale, affetta da una grave patologia mentale, non seguiva le cure prescritte - ed un assoluto disinteresse del padre, di tal chè, dapprima, affidava il minore ai Servizi sociali, e, nel 2017, all’esito del procedimento giudiziale, emetteva il provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale per entrambi i genitori, con nomina del tutore provvisorio e collocamento del minore presso una comunità.

Data: 14 Settembre 2021
DECRETO-LEGGE 24 AGOSTO 2021, N. 118. MISURE URGENTI IN MATERIA DI CRISI D’IMPRESA E DI RISANAMENTO AZIENDALE, NONCHÉ ULTERIORI MISURE URGENTI IN MATERIA DI GIUSTIZIA

Visti gli articoli 77 e 87, quinto comma, della Costituzione; Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure di supporto alle imprese per consentire loro di contenere e superare gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 ha prodotto e sta producendo sul tessuto socioeconomico nazionale; Considerata, a tal fine, l’esigenza di introdurre nuovi strumenti che incentivino le imprese ad individuare le alternative percorribili per la ristrutturazione o il risanamento aziendale e di intervenire sugli istituti di soluzione concordata della crisi per agevolare l’accesso alle procedure alternative al fallimento esistenti; Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di dettare disposizioni in materia di aumento del ruolo organico del personale della magistratura ordinaria, in ragione della necessità di assicurare che l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento (UE) 1939/2017 del Consiglio del 12 ottobre 2017, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea («EPPO») avvenga conservando le risorse di personale di magistratura presso gli uffici di procura della Repubblica individuati come sedi di servizio dei procuratori europei delegati;

Data: 8 Settembre 2021
È SANZIONABILE AI SENSI DELL’ART. 96 C.P.C. - RESPONSABILITÀ AGGRAVATA - IL PADRE CHE NASCONDE IL PROPRIO PATRIMONIO, OMETTENDO DI PAGARE IL MANTENIMENTO AL FIGLIO

Questa la vicenda fattuale: con ricorso depositato nel 2015, un padre chiedeva che il contributo al mantenimento del figlio – all’epoca poco più che maggiorenne - già fissato in € 800,00, venisse ridotto e corrisposto direttamente al ragazzo; all’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale rigettava il ricorso, condannando il padre al pagamento delle spese di lite ed al pagamento di una ulteriore somma a titolo di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. in favore della madre. Ciò posto, il padre soccombente si determinava a proporre impugnazione presso la Corte d'Appello di Roma, chiedendo inoltre la revoca della condanna per responsabilità aggravata. Sta di fatto che la Corte d'Appello adìta confermava il provvedimento di primo grado e rigettava il ricorso, di tal ché, quale extrema ratio, l'uomo si rivolgeva alla Suprema Corte chiedendo la riforma del provvedimento con revoca della condanna atteso che, a detta del ricorrente, la Corte d'Appello non aveva bene specificato gli atteggiamenti dissimulatori che lo stesso avrebbe messo in atto.

Data: 3 Agosto 2021
I PERMESSI CONCESSI DALLA L. N. 104/92 PER DARE ASSISTENZA AL PARENTE DISABILE DEVONO ESSERE UTILIZZATI SOLO PER TALE FINALITÀ, ATTESO CHE L’ESERCIZIO IMPROPRIO DEGLI STESSI VÌOLA I PRINCIPI DI BUONA FEDE E CORRETTEZZA NEI CONFRONTI DEL DATORE E DELL'ENTE ASSICURATIVO

Nella vicenda processuale oggetto di disamina, si deve evidenziare come preliminarmente i giudici di primo grado e, dappoi, i giudici di secondo grado, abbiano confermato il licenziamento disciplinare di un dipendente, al netto di specifiche vicissitudini. Invero, accadeva che, a seguito di accertamento investigativo, il lavoratore che, per le giornate del 24 e 25 agosto 2017, aveva usufruito di giorni di permesso ai sensi della L. n. 104 del 1992 per assistere la madre, aveva esplicato attività del tutto incompatibili con l'assistenza, essendosi recato prima presso il mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l'abitazione della madre, convivente con il marito. A ciò si aggiungeva la fattispecie per la quale il cambio di residenza della madre presso l'abitazione del lavoratore non fosse mai stato comunicato a Poste Italiane s.p.a., se non dopo le dovute contestazioni disciplinari, con conseguente impossibilità per il datore di lavoro di svolgere i controlli.

Data: 13 Luglio 2021
NON PUÒ AVERSI SUDDIVISIONE SIMMETRICA DEL TEMPO DA TRASCORRERE CON I PROPRI FIGLI, STANTE LA PRIMARIA NECESSITÀ DI TENERE IN CONSIDERAZIONE LE ESIGENZE DEI MINORI

Con riferimento al caso di specie, un padre, insoddisfatto della decisione resa dalla Corte d’Appello di Torino, ha proposto ricorso in Cassazione sollevando due motivi. Con il primo, il ricorrente ha denunciato la violazione per falsa applicazione dell'art. 337 ter c.c. e l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo, rispettivamente, come vi dovrebbe essere pari scansione temporale dei tempi di permanenza dei figli con ciascun genitore, sollecitando la collocazione ripartita a settimane alterne e, da ultimo, denunciando l’attuazione di condotte ostruzionistiche ad opera della moglie. Con il secondo motivo di gravame, concernente la conferma dell'assegno di mantenimento previsto per i figli, il ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell'art. 337 ter c.c., comma 4, e l'omesso esame di fatti decisivi, specificando come il proprio reddito si sia progressivamente ridotto nel corso degli anni e, dunque, dolendosi della circostanza in base alla quale l'esborso economico a proprio carico fosse stato contenuto unicamente con l'eliminazione dell'assegno di separazione dovuto alla moglie. Ciò posto, si deve rappresentare come gli Ermellini abbiano respinto il ricorso introitato dal padre, e ciò per le ragioni che si vanno di seguito ad esplicitare.

Data: 6 Luglio 2021
È LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL BIDELLO SCOLASTICO QUALORA QUESTI SI SIA RIFIUTATO DI SPAZZARE E SPOLVERARE AULE E SPAZI COMUNI DELLA SCUOLA

Nella vicenda processuale oggetto di disamina è accaduto che un collaboratore scolastico ha respinto l’irrogato licenziamento disciplinare per persistente insufficiente rendimento – decisione resa prima dal Tribunale di Bergamo e, dappoi, confermata dalla Corte d’Appello di Brescia – presentando apposito gravame in Corte di Cassazione ed eccependo ben 3 motivi di ricorso. Con il primo motivo, il ricorrente ha lamentato, rispettivamente, la violazione dell'art. 95. co. 7 del CCNL 2007 - che contempla il licenziamento con preavviso e non per giusta causa in caso di scarso e insufficiente rendimento – e dell'art. 55 quater comma 3 sexies D.Lgs. n. 165/2001 per mancato invio da parte dell’Ispettorato per la Funzione Pubblica per l’eventuale adozione del provvedimento di sospensione cautelare e contestazione della sanzione disciplinare. Ciò posto, per gli Ermellini tale motivo è stato reputato inammissibile, atteso che “nella fattispecie la parte ricorrente non ha trascritto l’atto di reclamo, nella parte in cui si impugnava il licenziamento denunciando i vizi in relazione ai quali si lamenta l’omessa pronuncia; ha genericamente dedotto che con il reclamo si lamentava l’omessa pronuncia del Tribunale sulle questioni, già formulate con il ricorso introduttivo e con il ricorso in opposizione”; per l’effetto, non è stato rispettato il necessario requisito della specificità. Con la seconda doglianza, il collaboratore scolastico ha precisato come – a suo dire – la Tabella A - Area A del CCNL 2007 del COMPARTO SCUOLA in merito alle mansioni del collaboratore scolastico – “prevede solo genericamente, ed in via subordinata, tra i compiti del collaboratore scolastico l’esecuzione delle pulizie dei locali, degli spazi scolastici e degli arredi, senza affermare che dette mansioni gli spettino obbligatoriamente”.

Data: 6 Luglio 2021
È SUSSUMIBILE IL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA EX ART. 572 C.P. ANCHE NEGLI AMBIENTI DI LAVORO RISTRETTI IN CUI SI CREA UN RAPPORTO PARAFAMILIARE

Con la sentenza oggetto di odierna disamina, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema dell'estensione del reato di "Maltrattamenti contro familiari o conviventi" (art. 572 c.p.) alle condotte di mobbing sui luoghi di lavoro. Con riferimento al caso di specie, al farmacista – odierno ricorrente, oltre al reato di violenza sessuale, viene imputato anche quello di maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572 c.p., per aver abitualmente perpetrato, nel corso dell'attività lavorativa presso una farmacia, atti di maltrattamento nei confronti di due dipendenti. Nello specifico, il ricorrente giornalmente e per diversi anni, vessava e offendeva con appellativi oltraggiosi rispettivamente una magazziniera e una farmacista, sue dipendenti, assoggettandole a punizioni umilianti in caso di errori commessi sul lavoro, arrivando, finanche, a far pagare una quota alle due donne per l'utilizzo del bagno o costringendo una delle due dipendenti a svolgere faccende domestiche nella sua abitazione, a lavare la propria auto e a compiere mansioni non contemplate nel contratto di lavoro. L’imputato ha introitato gravame innanzi alla Corte di legittimità avverso il disposto reso dalla Corte d’Appello di Cagliari, affermando, tra gli altri motivi, come, a suo dire, non sussistesse il vincolo della parafamiliarità necessario per integrare il reato per il quale veniva condannato, di tal ché avrebbero commesso un grave errore i Giudici del merito nel ritenere che la farmacia in cui si sarebbero svolti i fatti, fosse qualificabile come realtà equiparabile alla sfera familiare, solo per le dimensioni dell'ambiente, le tante ore trascorse a stretto contatto e la vigilanza continua e diretta esercitata sui dipendenti, paragonabile a quella che eserciterebbe un padre.

Data: 22 Giugno 2021
IL DIRITTO AL MANTENIMENTO NON VIENE MENO NEANCHE QUALORA LA COPPIA DI CONIUGI ABBIA SCELTO DI NON CONVIVERE

Nella fattispecie in esame, la sentenza di primo grado, in seguito confermata dalla Corte d’Appello di Roma, poneva a carico del marito – odierno ricorrente - l’assegno per il contributo al mantenimento della moglie, per complessivi €200 mensili. Per tale suesposta ragione, il marito si determinava a presentare ricorso in Cassazione, deducendo, in primo luogo, la violazione dell’articolo 156 del c.c., stante la circostanza per la quale, a suo dire, il Giudice di secondo grado avesse riconosciuto i presupposti per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento, pur avendo accertato che ciascuno dei coniugi sostanzialmente provvedesse a sé medesimo facendo unicamente ricorso alle proprie risorse, “sicché non vi era, a monte, alcun tenore di vita coniugale o alcuno standard familiare al quale parametrare l'assegno di mantenimento”. Dappoi, col secondo motivo di ricorso, il marito denunciava il fatto che la Corte di merito avesse erroneamente comparato i redditi delle parti, anche in virtù della lettera di licenziamento prodotta dalla moglie all'udienza di precisazione delle conclusioni, “senza considerare le preclusioni proprie del rito ordinario e che, pertanto, il licenziamento avrebbe dovuto trovare ingresso in sede di revisione delle statuizioni economiche della sentenza di separazione, ai sensi dell'art. 710 c.p.c.”. La Corte ha rigettato il ricorso ritenendo inammissibili entrambi i motivi del gravame introitato.

Data: 16 Giugno 2021
IN MATERIA DI INDENNITÀ DI ACCOMPAGNAMENTO, IL RUOLO DELL'INPS SI LIMITA ALL’INDIVIDUAZIONE DELLE CONCRETE MODALITÀ DI PRESENTAZIONE DELLE ISTANZE; DI CONTRO, IL PREDETTO ENTE NON DEVE INTERVENIRE NELL'INDIVIDUAZIONE DEL CONTENUTO DELLE DOMANDE

La questione oggetto di disamina prende le mosse dalla pronuncia del Tribunale di Roma, che, decidendo in sede di opposizione ad A.T.P. ex art. 445 c.p.c., aveva dichiarato inammissibile la domanda di accertamento del requisito sanitario relativo all'indennità di accompagnamento, per essere l'istanza corredata da un certificato medico in cui veniva escluso che ricorressero le condizioni per beneficiare della prestazione. Avverso la sentenza n. 5352/2018 resa dal Tribunale di Roma, il ricorrente ha introitato apposito gravame innanzi alla Corte di Legittimità, deducendo un unico motivo di ricorso. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ritenendo fondata la doglianza. Preliminarmente, la Corte ha stigmatizzato l’assunto per il quale la presentazione della domanda amministrativa costituisca presupposto essenziale dell'azione nelle controversie previdenziali, ai sensi dell'art. 443 c.p.c.. Dappoi, il Supremo Collegio non manca di evidenziare come, nella fattispecie sottoposta al vaglio dello stesso, non sia in discussione “la presentazione della domanda amministrativa ma ciò di cui si controverte è se il certificato medico "negativo" - con segno di spunta sull'inesistenza delle condizioni per il diritto all'indennità di accompagnamento - rilasciato su modulo predisposto dall'INPS, possa condizionare la stessa domanda amministrativa e renderla equiparabile alla mancata presentazione della stessa, con conseguente improponibilità della domanda giudiziaria per difetto del presupposto processuale costituito dall'atto d'impulso del procedimento amministrativo diretto all'accertamento delle condizioni sanitarie per il sorgere del beneficio richiesto”.

Data: 8 Giugno 2021
AL MARITO CHE VA VIA DA CASA ALL'IMPROVVISO, SENZA PREVIO DEPOSITO DELLA DOMANDA DI SEPARAZIONE GIUDIZIALE, DEVE ESSERE ADDEBITATA LA SEPARAZIONE MEDESIMA

Con riferimento al caso di specie, la vicenda giudiziale trae origine dal ricorso per separazione depositato dall’odierna ricorrente, nel quale la medesima ha richiesto l’addebito della separazione al marito, reo – a detta della ricorrente medesima - di aver abbandonato improvvisamente il tetto coniugale, senza aver esperito alcuna preventiva domanda di separazione, alla luce di una mera confessione di un sentimento nei confronti di un’altra donna. Rimasta soccombente in entrambi i gradi di giudizio - per volontà del tribunale di Pistoia prima, e della Corte d’Appello di Firenze poi - la moglie introita gravame in Cassazione, affidandolo a tre motivi di ricorso. Rispettivamente, con il primo motivo di ricorso l’odierna ricorrente denuncia il mancato accoglimento della domanda di addebito della separazione in considerazione del comportamento del marito, il quale improvvisamente ha confessato di nutrire sentimenti per un'altra donna per poi allontanarsi repentinamente dalla residenza coniugale, addirittura escludendo la coniuge dalla farmacia in cui collaborava. In merito, invece, al secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la circostanza in base alla quale il Giudice di secondo grado abbia posto a suo esclusivo carico la prova delle circostanze descritte nel ricorso (adulterio, abbandono del tetto coniugale, ostentazione della nuova relazione), non contestate sostanzialmente dalla controparte, che si sarebbe limitata a cercare di porre una giustificazione alle stesse. Ciò

Data: 8 Giugno 2021
NEL CONTRATTO DI LAVORO INDIVIDUALE È VALIDA LA CLAUSOLA DI RINUNCIA ALL'ASTENSIONE DALLA PRESTAZIONE LAVORATIVA NELLE GIORNATE FESTIVE INFRASETTIMANALI - DI CUI ALL'ART. 2 DELLA LEGGE N. 260 DEL 1949

Nella sentenza oggetto di disamina, con ben 11 motivi di gravame, la società ricorrente ha impugnato la sentenza resa dalla Corte d’Appello di Trento, la quale ha accolto la domanda di S.L., M.G., L.M.S., proposta nei confronti della società medesima, per l'annullamento delle sanzioni disciplinari conservative applicate alle lavoratrici per essersi astenute dal lavoro durante alcune festività nazionali infrasettimanali. Prima di entrare nel merito di quanto affermato dalla Suprema Corte con riferimento al caso oggetto di disamina, è necessario un opportuno riferimento alla cornice edittale secondo quanto prospettato dalla L. 27/05/1949, n. 260 - in parte novellata dalla L. n. 90 del 1954, ovvero la norma concernente le “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”. All’uopo, secondo l’anzidetta disciplina, si considerano giorni festivi determinate ricorrenze religiose e civili (artt. 1-3), durante le quali i lavoratori hanno diritto ad astenersi dal lavoro conservando la retribuzione piena e, in aggiunta a questa, una retribuzione maggiorata per il lavoro eventualmente prestato in tali ricorrenze (art. 5).

Data: 12 Maggio 2021
IL LAVORATORE IN MALATTIA, A CUI È STATO DIAGNOSTICATO UN DISTURBO DEPRESSIVO, IL QUALE ESCE PER DISTRARSI, NON ASSUME UNA CONDOTTA INCOMPATIBILE CON IL SUO STATO DI MALATTIA, NÉ TANTOMENO IL SUDDETTO COMPORTAMENTO PUÒ ESSERE CONSIDERATO PREGIUDIZIEVOLE AI FINI DEL SUO RIENTRO AL LAVORO

Nella sentenza oggetto di esame, con il primo motivo di ricorso, la Società datrice di lavoro ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e 2104 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oltre che l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in quanto, a suo dire, la Corte d’Appello di Napoli non avrebbe considerato come il rapporto di lavoro in ogni sua fase debba essere improntato al rispetto dei canoni di buona fede, correttezza e ordinaria diligenza. Al contrario, il controricorrente, “mostrandosi nel periodo di malattia impegnato in attività ricreative, avrebbe assunto un comportamento incompatibile con la dichiarata condizione depressiva venendo meno ai propri doveri di collaborazione con il datore di lavoro, mediante l'ostensione di atteggiamenti che testimoniavano la partecipazione ad attività palesemente contrarie a quegli obblighi di correttezza e buona fede”.

Data: 5 Maggio 2021
È ILLEGITTIMO L'ART. 18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI, COSÌ COME FORMULATO DALLA RIFORMA FORNERO, RELATIVAMENTE ALLA PARTE IN CUI PREVEDE CHE LA REINTEGRA NEL POSTO DI LAVORO IN PRESENZA DI FATTI MANIFESTAMENTE INSUSSISTENTI, VENGA CONTEMPLATA COME UNA MERA FACOLTÀ, E NON COME UN OBBLIGO DEL DATORE DI LAVORO

Il Tribunale di Ravenna in funzione di Giudice del Lavoro, con ordinanza del 7 febbraio 2020, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della L. 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), "nella parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. giustificato motivo oggettivo, "possa" e non "debba" applicare la tutela di cui al 4 comma dell'art. 18 (reintegra)". Nello specifico, il Tribunale in questione ha rilevato come “Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione lederebbe il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, per effetto di una "insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell'altro l'atto espulsivo", determinerebbe un'arbitraria disparità di trattamento tra "situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio l'infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il G.M.O.)". In particolare, secondo il Tribunale romagnolo, tale disposizione legislativa violerebbe finanche l’art. 41 Cost., stante la considerazione per la quale, in tale maniera, si andrebbe ad attribuire al datore di lavoro “un potere di scelta di tipo squisitamente imprenditoriale", che si tradurrebbe nell'intimazione di "un nuovo ed autonomo atto espulsivo". La previsione legislativa censurata, inoltre, lederebbe il contemplato diritto di agire in giudizio, costituzionalmente previsto ex art. 24 Cost., poiché il lavoratore "si troverebbe esposto all'esercizio di una facoltà giudiziale totalmente discrezionale", e sarebbe fortemente compromessa la possibilità di difendersi congruamente. Il giudice a quo prospetta, poi, anche la mancata ottemperanza del disposto rispetto a quanto sancito dall'art. 7 della L. 15 luglio 1966, n. 604 – ovvero in tema di procedure di garanzia previste con riferimento ai licenziamenti individuali – in quanto si intenderebbe ammessa la sola impugnativa in sede di gravame, con conseguente "abolizione di un grado di giudizio".

Data: 20 Aprile 2021
NON PUÒ QUALIFICARSI COME GIUSTIFICATO MOTIVO LA MANCATA PARTECIPAZIONE ALLA MEDIAZIONE PER LA PRETESA INFONDATEZZA DELLE RAGIONI DÌ CONTROPARTE

Nella pronuncia oggetto di disamina, la Corte di Appello adìta si è occupata della vexata quaestio delle conseguenze della mancata partecipazione della parte al procedimento di mediazione ante causam e, nello specifico, delle ragioni sottese alla mancata partecipazione. In particolare, la Corte ha osservato come con il settimo motivo di appello, l’appellante abbia lamentato che il Giudice avesse sbagliato nel ritenere ingiustificata la sua partecipazione al procedimento di mediazione, con conseguente condanna dello stesso al pagamento della sanzione di cui all’art. 8, co. 5, D.Lgs. n. 28 del 2010. Invero, l’appellante aveva giustificato la mancata partecipazione al procedimento conciliativo, per un verso, in considerazione della circostanza per la quale ogni questione doveva ritenersi risolta con la sentenza 208/08, per altro, sulla scorta dell’inutilità della procedura di mediazione alla luce delle pretese temerarie della sig.ra omissis nei confronti dell’appellante. Preliminarmente, va premesso che, secondo la Cassazione, tali sanzioni sono impugnabili con l’appello, non essendo applicabile la previsione di cui all’art. 179 c.p.; invero, come da principio giurisprudenziale consolidato: “Non è impugnabile mediante ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., bensì mediante appello della sentenza, di cui costituisce un capo accessorio, la statuizione obbligatoria con la quale il giudice condanna la parte costituita, che non ha partecipato al procedimento obbligatorio di mediazione senza giustificato motivo, al pagamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio, ai sensi dell’art. 8, comma 4 bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, il quale disciplina un provvedimento sanzionatorio che non è assimilabile alle condanne a pene pecuniarie 2 di cui all’art. 179, comma 2, c.p.c., da ritenersi applicabile alle sole sanzioni previste dal codice di rito, in attuazione di un potere disciplinare in senso lato” (Cass. civ., Sez. VI – 1, Ord., 26/01/2018, n. 2030). Tanto premesso, è doveroso un opportuno riferimento alla disciplina espressa ex D. Lgs. n. 28 del 4.3.2010, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, e, nello specifico, all’art. 8 - che disciplina lo svolgimento del procedimento di mediazione, co. 5, il quale così dispone: “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”.

Data: 13 Aprile 2021
LE SPESE DA SOSTENERE PER IL RISANAMENTO DEI FRONTALINI SONO "CONDOMINIALI", IN QUANTO CONTRIBUISCONO AL DECORO ARCHITETTONICO DEGLI EDIFICI E NE CARATTERIZZANO LE FACCIATE

La vexata questione oggetto di disamina è stata questa volta posta all’attenzione del Tribunale di Roma, che è stato chiamato a pronunciarsi sulla natura privata o condominiale delle spese di manutenzione straordinaria dei c.d. “frontalini” dei balconi dei condomini. La peculiarità del caso oggetto di disamina dal Tribunale capitolino nasce dall’iniziativa di alcuni condomini che hanno adito le vie giudiziarie ritenendo che il costo dei lavori – aventi ad oggetto il risanamento dei cornicioni e dei frontalini relativi agli appartamenti del Condominio – dovesse ricadere solo sui condòmini proprietari degli appartamenti muniti di balconi, poiché i frontalini, avrebbero dovuto essere considerati beni di proprietà esclusiva e non condominiale, come di contro deliberato dall’Assemblea condominiale all’adunanza del 20.4.17. Essi, in particolare evidenziavano come, nella stessa adunanza, l’Assemblea, al punto n. 3, aveva qualificato le spese da sostenere per il risanamento dei frontalini come "condominiali", ripartendo così l'intero costo tra tutti i condòmini in proporzione dei rispettivi millesimi. Ciò posto, deve essere preliminarmente rappresentato quanto premesso dal Tribunale romano nel proprio provvedimento, ovvero che, in primo luogo, “una delibera non può attribuire i frontalini alla proprietà condominiale, come pure non può attribuirli alla proprietà individuale dei titolari delle unità immobiliari cui i relativi balconi accedono; infatti, non compete all'assemblea di decidere l'estensione delle proprietà esclusive e di quelle comuni, la quale, invece, è determinata dai titoli di 2 acquisto, dal regolamento condominiale contrattuale e, in mancanza di specificazioni al riguardo, dalla legge (art. 1117 c.c.)”.

Data: 7 Aprile 2021
È LEGITTIMO IL DIRITTO DEL DATORE DI LAVORO DI PORRE IN FERIE FORZATE IL LAVORATORE – NEL CASO DI SPECIE, PARAMEDICI DI UNA RSA – CHE RIFIUTA IL VACCINO CONTRO IL COVID-19: PREVALE IL DOVERE DEL DATORE DI TUTELARE LA SALUTE DEI DIPENDENTI, RISPETTO ALLA LIBERTÀ DEI LAVORATORI DI RIFIUTARE IL VACCINO

Va premesso che in tema di tutela delle condizioni di lavoro, cosa prescrive l’art. 2087 c.c., ovvero, nello specifico, che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Anche sulla scorta del su menzionato principio giuridico, nella sentenza in esame, il Giudice del Tribunale bellunese ha rigettato il ricorso cautelare d’urgenza introitato da alcuni operatori di una RSA. Nello specifico, i suddetti lavoratori venivano sospesi dal proprio datore di lavoro, che li poneva in “ferie retribuite”, stante la circostanza per la quale trattavasi di paramedici di una RSA i quali rifiutavano di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid 19. Ciò posto, in considerazione di quanto disposto ex art. 2087 c.c., il Giudice ha ritenuto insussistente il fumus bonis iuris. All’uopo, il Giudice ha evidenziato, per un verso, che i ricorrenti potevano essere qualificati quali individui “impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro” e che “è ormai notoria l’efficacia del vaccino per cui è causa nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS –CoV-2, essendo notorio il drastico calo di decessi causati da detto virus, fra le categorie che hanno potuto usufruire del suddetto vaccino, quali il personale sanitario e gli ospiti di RSA”; e, per altro verso, ha 2 perseverato affermando come, alla luce di tali premesse, il ricorso d’urgenza non potesse essere accolto“ritenuto che la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti; che è ormai notorio che il vaccino per cui è causa – notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione – costituisce una misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia”. Allo stesso modo, il Giudice ha ritenuto il ricorso carente anche del periculum in mora, “non essendo stato allegato da parte ricorrente alcun elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento”.

Data: 7 Aprile 2021
NON SANZIONABILE IL WHISTLEBLOWER CHE DENUNCIA LO SVOLGIMENTO DI CONDOTTE ILLECITE DA PARTE DI UN'AMMINISTRAZIONE PUBBLICA O UN'AZIENDA PRIVATA

Con l’ordinanza del 11/03/2021, n. 1547 il TAR Lazio ha nuovamente ribadito la non sanzionabilità del whistleblower che denuncia lo svolgimento di condotte illecite da parte di un'amministrazione pubblica o un'azienda privata. Al fine di meglio comprendere i termini della vicenda de qua, occorre inquadrare la cornice legislativa che disciplina l’istituto del whistleblowing. Il whistleblower altro non è che il lavoratore denunciante lo svolgimento di condotte illecite da parte di un'amministrazione pubblica o un'azienda privata – invero, la traduzione del termine whistleblowing o whistleblower è segnalazione o segnalatore di illeciti; in particolare, nel settore pubblico, il whistleblower è il dipendente che segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza o all'Anac (Autorità nazionale Anticorruzione), o che denuncia all'autorità giudiziaria ordinaria o contabile, le condotte illecite delle quali è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro. Il concetto di whistleblowing è stato inserito nello scenario giuridico italiano con la Legge n. 90/2012; pertanto, attualmente, il nostro ordinamento riconosce una specifica tutela al whistleblower tramite l’inserimento, all’interno del D. Lgs. n. 165/2001, dell'articolo 54-bis,preposto alla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti Fatta tale doverosa premessa, è possibile procedere alla disamina di quanto accaduto con riferimento al caso di specie. Un segretario comunale ha introitato ricorso innanzi al T.A.R. Lazio, contro l'Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC), per chiedere l'annullamento - previa sospensione dell'efficacia - della delibera adottata dal Consiglio dell'Autorità e comunicata al ricorrente via pec. Nello specifico, con tale delibera, l'ANAC ha sanzionato il segretario comunale con una multa di 5000 €, stante la circostanza per cui il medesimo avesse punito,con inopportuno 2 provvedimento disciplinare,l'autore di una segnalazione per fatti di reato o gravi irregolarità di cui era venuto a conoscenza nell'ambito del rapporto di lavoro.

Data: 31 Marzo 2021
GLI EMBRIONI CONGELATI, PRODOTTI DALLA COPPIA, POSSONO ESSERE IMPIANTATI ANCHE DOPO MOLTO TEMPO NELL'UTERO DELLA DONNA ED ANCHE CONTRO LA VOLONTÀ DELL'UOMO DEL QUALE QUESTI EMBRIONI PORTANO IL CORREDO GENETICO, IN QUANTO È NECESSARIO UNICAMENTE IL CONSENSO DELLA DONNA

In Italia molte coppie, al fine di realizzare l’intento di creare una famiglia ed avere bambini, devono necessariamente ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. A tale procedura faceva ricorso, nel lontano 2008, la coppia protagonista del caso oggetto di disamina, la quale dopo un primo tentativo di impianto fallito, decideva di congelare gli embrioni in attesa di un nuovo tentativo. Sta di fatto che, nelle more, il rapporto di coppia si è deteriorato, la crisi coniugale è stata conclamata, di tal che il marito decideva di porre fine al matrimonio. A distanza di anni, nonostante la fine del matrimonio, la ex moglie decideva di rivolgersi al Tribunale per vedere riconosciuto il suo diritto all'impianto degli embrioni, nonostante la separazione e il parere contrario del marito. La normativa di riferimento in tema di PMA è rappresentata dalla Legge n. 40 del 2004; la medesima, invero, disciplina i numerosi aspetti strettamente connessi alla procreazione medicalmente assistita, quali, a titolo esemplificativo, l’accesso alle tecniche (difatti, attualmente tale procedura è riservata solo alle coppie formate da maggiorenni eterosessuali, coniugate o conviventi, in cui entrambi siano conviventi e in età potenzialmente fertile, e solo nel caso in cui l'infertilità non sia risolvibile diversamente), lo statuto dell'embrione (poiché è vietata qualsiasi sperimentazione, manipolazione o intervento sull'embrione che non siano diretti esclusivamente alla tutela della sua salute, ovvero deve ritenersi escluso qualsiasi scopo eugenetico o selettivo), nonché lo stato giuridico del nato (invero, i nati da procreazione medicalmente assistita acquistano a tutti gli effetti lo stato di figli legittimi o riconosciuti dalla coppia).

Data: 23 Marzo 2021

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